All’Università di Udine il film “Tides (Maree)”, premio come miglior film al festival “Un film per la pace”. A tu per tu con il regista Negrini: “Racconto la storia superando i confini, in Friuli come altrove c’è paura e non si sogna”
Nella sede dell’Università di Udine situata in via Margreth è stato proiettato oggi, per gli studenti dei corsi di Lettere e Conservazione dei Beni Culturali, il film “Tides (Maree) – Storie di vite e sogni perduti e trovati (alcuni infranti)”, vincitore del premio come miglior film al festival “Un film per la pace”. Ospite per l’occasione anche il regista dell’opera, Alessandro Negrini, che ci ha gentilmente concesso un’intervista. Partiamo innanzitutto con la contestualizzazione e l’idea alla base del lungometraggio: “L’idea di Tides nasce dal desiderio di raccontare i confini, tema che sento a me molto vicino, ma da un’angolazione diversa. In questo caso il confine è un fiume che separa la città di Derry in Irlanda del Nord e che diventa il personaggio narrante del film, ho deciso di dare quindi voce non alle persone, ma al confine stesso, cercando di dargli l’unica voce possibile, ovvero la poesia”.
Scelta del narratore molto caratterizzante e alquanto particolare: “No in effetti i fiumi parlanti pare siano pochi. Nel caso del film Maree la voce è femminile per ragioni che non so ancora spiegare ho sempre pensato che quel fiume fosse una lei e che nella sua voce ci sia un timbro che dà sia saggezza che innocenza. I fiumi sono la grande metafora della storia, se ne vanno restando e questo fa la storia in continuazione e questo è anche il mio tentativo, raccontare la storia attraverso un’angolazione più poetica, meno didattica”.
Altra caratteristica del film è un contrasto tra le immagini di vita quotidiana e ciò che riporta la voce narrante, che spesso parla di fatti tragici, come la resa del Giappone: “Il materiale d’archivio è quasi tutto amatoriale, in Super 8, il mio tentativo era non tanto quello di raccontare la vita delle persone separate, quanto la loro memoria di quando erano felici e le immagini che ho trovato sono una sorta di enciclopedia dei sogni dimenticati, che sono loro, ma che si declinano anche nei nostri, tutti noi siamo portatori di un pezzetto che abbiamo dovuto o mettere da parte o che ci hanno insegnato a dimenticare. La funzione del materiale d’archivio è proprio questa: far emergere da questo fiume questo territorio che non c’è ma che c’è, che cosa sognavamo una volta? E perchè non lo sognamo più? La grande domanda che ci pone questo fiume confine che danza nel territorio onirico dei sogni”.
Per quanto riguarda i confini, più in generale, ci sono due linee di pensiero, c’è chi vede i confini come un limite e c’è chi li vede come qualcosa di sicuro tra i quali restare, il regista ci spiega la sua posizione: “Se non avessi fatto il regista avrei voluto fare il contrabbandiere, perchè come loro condivido questo pensiero perenne di superare i confini, scavalcandoli o forandoli, con la differenza che portare sigarette o altro io porto delle storie. I confini non sono in natura, persino le montagne non sono confini, perchè si possono bypassare. c’è chi lo fa, gli scalatori lo fanno, superano quello che è apparentemente un confine. Il problema non è il confine in sè, ma l’interpretazione che gli viene data e la necessità che ti venga fatto percepire come fondante della tua vita. Il tema della paura – prosegue Negrini – è alla radice di tutto questo, per poterti dominare devo poterti impaurire e da impaurito senti la necessità di un muro che ti difenda. Se io ti spavento diventi bambino e i bambini spaventati cercano la figura paterna autorevole che dà loro sicurezza tenendoli chiusi dietro quattro pareti. Questa dinamica è amplificata da quello che accade tutti i giorni, siamo costantemente indottrinati dall’idea di aver bisogno di essere protetti, di dover giustificare l’esistenza di un muro, il che è ridicolo se ci pensi. La tua stessa nascita inizia con un’uscita, il limite del corpo di nostra madre viene superato, quindi è nella natura umana uscire e non rimanere. Purtroppo c’è tutta una cultura che ha come unico scopo di iniettarti questa paura avvelenante, in cui l’altro non è mai un incontro, ma un pericolo, se ti senti in pericolo ti chiudi dietro a un muro”.
Il documentario è arrivato in una terra come il Friuli dove il tema dei confini è centrale e anche la questione dell’immigrazione: “Il Friuli lo conosco, ci ho bazzicato parecchio. Credo che sia come tante altre aree dell’Italia soprattutto del nord, vittima di questa cultura della paura. I risultati elettorali ne danno conferma, quando tu vivi e ti vengono sotratti i tuoi diritti, inevitabilmente cerchi di colpevolizzare uno a cui hanno tolto ancora più diritti di te. “La guerra tra poveri viene vinta sempre dai più ricchi” si diceva, quando le osterie erano frequentate da persone sagge. Oggi la dinamica è la stessa, è sempre la solita guerra tra poveri. La notizia di ieri di quello che ha sparato a caso (riferimento ai fatti di Firenze ndr), che aveva perso il lavoro, e il primo a cui ha pensato di sparare era uno di colore è esattamente quello, riuscire a far percepire a un disperato che la ragione della sua disperazione è un altro disperato e questa dinamica è applicata bene perchè sanno che funziona. È così dai tempi dei romani, Napoleone, quando non c’erano media. È fondamentale nutrire la consapevolezza di sè e la speranza, questa parola desueta come sogno. Non dico la parola utopia che ormai è addirittura irrisa, ma persino la parola sogno è declinata in maniera negativa. L’unica frase che vale è “devi essere realista”.
Si è smesso di sognare o si “sogna in negativo”? “I sogni in negativo sono un ossimoro, i sogni in negativo sono un incubo. Diciamo che ci hanno sotratto dei sogni e ci hanno dato indietro degli incubi. Questo sì, questo succede nella nostra mente quando ti addormenti. Certo che abbiamo smesso di sognare, è una delle attività che praticano tantissimi bambini ed è un’attività che viene domata, perchè sognare ti fa vedere ciò che ancora non c’è. Il cinema stesso è un catalizzatore di questa attività, ne parlava Munari, quando tu sei al cinema sei davanti a un uomo alto otto metri e automaticamente tu diventi bambino e sei in una dimensione onirica di sogno, se io invece io capovolgo questa cosa sei davanti a un uomo di otto centimetri e non sarai mai più capace di vedere qualcosa che vada oltre al piccolo schermo del cellulare o del televisore. La sottrazione dei sogni – conclude tra il duro e l’amaro il regista – è il più grande crimine che la società contemporanea abbia fatto all’umanità, non riuscire a vedere oltre lo status quo, che è la cosa più naturale, tu quando giochi da piccolo ti immagini mondi inesistenti e questo ti viene chirurgicamente tolto dalla testa con tante dinamiche, la principale è quella appunto della paura, questo è il grande delitto che andrebbe punito. I sotrattori di sogni andrebbero puniti”.