“Vi racconto mia moglie, donna e rugbista”: un racconto ovale al femminile, ma non solo
Ah…la festa della donna. Giornata tanto importante, quanto sempre più priva dei valori che dovrebbero ispirare questa giornata. Non voglio, però, perdere tempo a tentare di spiegarvi le origini di questa “festa”, siamo qui per paralre di rugby, ragion per cui preferisco tentare di spiegarvi, ovalmente parlando… mia moglie. Come ci siamo conosciuti e come, io, mi sono perdutamente innamorato di lei.
Sono sempre stato un personaggio schivo, amante del silenzio e gran ascoltatore di tutto. In modo particolare, però, l’avrete sicuramente capito ho amato il rugby e tutto quello che da sempre è girato attorno a questo sport. Bene, negli anni delle grandi contestazioni studentesche e delle feste dell’8 marzo in cui si manifestava per rivendicare i diritti delle donne, io c’ero. Ero il classico giovane che viveva di ideali e si sfogava, sportivamente parlando, grazie alla palla ovale. Durante uno degli allenamenti serali, che si svolgevano rigorosamente in una sorta di parco, illuminato dalla fioca luce di un lampione, arrivò Caterina, la fidanzata del capitano (ne abbiamo già parlato qui), assieme ad una ragazzina minuta, ma di una bellezza incredibile, che lascio tutta la squadra assolutamente senza fiato.
Caterina, da donna tutta d’un pezzo, decisa e assolutamente genuina, ce la presentò così:
“Ragazzi, ora potete chiudere le bocche, per favore. E, da persone educate, quali penso voi siate (gran sorriso) è meglio se vi presentate. Lei è Alessandra, una mia nuova compagna di lavoro, arriva dalla Francia e, chiaramente, anche lei è una rugbista” .
Allenamento bloccato e tutti a presentarsi proponendo gli inviti più disparati. Lei sempre sorridente, con questi occhi verdi profondi a tal punto da perdersi, dopo una decina di minuti di convenevoli, evidentemente stufa di tanta formalità chiese di potersi allenare con noi. Casualmente, però, proprio quando, trovato il coraggio (sono da sempre timido, anche se provo a non darlo a vedere) stavo per andarmi a presentare io. Orgoglioso, feci finta di niente e mi diressi verso il campo. L’allenamento fu bello, tutti provarono a farsi vedere, facendo più brutte figure che altro e Alessandra dimostrò di avere carattere, fece un buon allenamento, sempre supportata dal carisma e dalla personalità di Caterina. Io provai ad incrociare il suo sguardo, ma non ci riuscii quasi mai; rimediando solo un paio di bei placcaggi (cosa che mi capitava di rado) e gli sfottò di mezza squadra. Finito allenamento, avevo quella strana sensazione nello stomaco, che non avevo mai provato e il capitano, mio migliore amico, mi invitò a bere una birra con lui, Caterina e Alessandra. Io, frastornato e silenzioso accettai e, una volta tentato di sistemarmi al meglio (quella sera avevo provato addirittura a pettinarmi, tra lo stupore generale della squadra) , mi diressi con loro verso il nostro pub di riferimento: un piccolo locale, nei pressi del nostro sgangherato stadio del rugby. Diciamo che per buona parte della serata me ne stetti in silenzio ad ascoltare, ascoltarla forse è meglio. Parlò dei diritti delle donne, di come bisognava impegnarsi per cambiare le cose, che era arrivato il momento di far valere le proprie idee. Aveva un modo di vedere le cose, dal mio punto di vista, assolutamente perfetto e una parlantina che mi rapiva.
Si soffermò, in seguito, a raccontarci il ruolo che il rugby aveva avuto nella sua crescita come donna: fondamentale. Una scuola di vita, sottolineò. Si era innamorata di questo sport in Francia, guardando le partite della squadra della sua città, di cui il padre era un grandissimo tifoso. Si era, in seguito informata se c’erano delle squadre femminili, ma aveva ricevuto solo grandi sorrisi e la classica frase “questo è uno sport da uomini, scherzi vero?!”. Da ragazza orgogliosa e decisa, si era però presentata agli allenamenti della squadra maschile, chiedendo di poter partecipare. Tra le risate generali, tuttavia, le diedero la possibilità di partecipare, non risparmiandole impatti e placcaggi. Ci raccontò che fu molto dura, ma non poteva far trasparire sofferenza, doveva convincerli che poteva essere del gruppo, anche se solamente in allenamento. Come li convinse? “Semplice, se loro ti placcano duro, tu schivali, io sono veloce per cui ho provato ad evitarli, stando all’ala”. Ho avuto fortuna, perché il loro 11 era lentissimo. Meglio per me.” Disse sorridente.
A quel punto, ma l’avevo percepito appena avevo incrociato il suo sguardo, capii di essermi perdutamente innamorato. L’unico piccolissimo problema era trovare il modo di interagire, perché passate due ore non avevo ancora proferito verbo e sia il capitano, che Caterina oltre ad essersene accorti, avevano captato pure il mio “lieve” colpo di fulmine. Così tra una chiacchiera e una pinta di birra, mi ritrovai fuori dal pub solo con Alessandra, dopo che C&C (capitano e Caterina) se n’erano andati a casa, in fretta e furia.
Cosa feci?
Tentai di trovare il coraggio di dire, almeno qualcosa. Ma venni sopraffatto, Alessandra mi guardò e disse:
“Indubbiamente hai uno strano modo di corteggiare le ragazze. Nessuno mi aveva mai ascoltata per tre ore e mezza, senza mai abbassare lo sguardo e, soprattutto, senza dire nulla. In ogni caso, ti trovo interessante, ti avevo già notato in giro con il Capitano, ecco “metto le carte in tavola” (per la prima volta, arrossì un po’)”. Io inebetito sorrisi, lei si avvicinò, mi diede un bacio sulla guancia e disse semplicemente… “a domani”…
Sono 30 anni che, ogni sera, mi da la buona notte in questa maniera. L’unica cosa che è cambiata? Che io ho iniziato a parlare.