Bullismo che non si vuole vedere
L’insegnante segnala ma per ‘privacy’ si toglie il nome dell’autore del gesto
Vittima una ragazza autistica.
E il docente finisce accusato dal vicedirigente.
Anomalie di un sistema. Vizi di forma e di sostanza. Il bullismo che non si vuole vedere e, quando lo si rileva, diventa un boomerang contro chi ha avuto il coraggio di segnalarlo. Anche questa è la scuola italiana, caro Ministro che tuoni, giustamente, contro il bullismo. Corsi e formazione per vertici e insegnanti con l’obiettivo di captare subito episodi o atmosfere striscianti di violenze. Convegni con i massimi esperti. Tutto giustissimo. Ma poi? Poi succede che quando un insegnante precario, supplente per caso in una classe non sua (vista appena per la terza volta in un anno), decide di mettere una nota ad un’alunna responsabile di un grave gesto ai danni di una compagna disabile (autistica), si ritrova al centro di un polverone e quella segnalazione diventa l’occasione per una reprimenda dura da parte del vicedirigente che aveva cancellato, per privacy, il nome dell’autore del comportamento bullistico nelle comunicazioni riservate rivolte alla famiglia della vittima.
Andiamo con ordine.
Ci troviamo in un Istituto tecnico superiore in Friuli.
Ad un’insegnante di sostegno viene assegnata una supplenza. Si sa quale sia la considerazione dei supplenti in generale, ma soprattutto di un supplente che in quella classe non riveste alcun ruolo. Che dire. Forse c’era chi pensava di prendersi più libertà, o semplicemente la stessa libertà che si era presa durante tutto l’anno con insegnanti di ruolo, della classe, a cui faceva più comodo fare finta di non vedere, di non captare, caro Ministro, certi comportamenti, certe allusioni nei confronti di un’alunna autistica…
Con il pretesto di voler aprire la finestra, la bulletta, quattordicenne, in maniera fulminea, riesce a prendere un astuccio e, avvicinandosi alla finestra, inizia a brandirlo come un trofeo e a volerlo buttare, lanciandolo dalla finestra. Ironizza sul tipo di astuccio, sul colore rosa, mentre la classe ride, qualcuno resta muto, e l’insegnante supplente esige di sapere subito di chi sia quell’astuccio. La ragazza dice e ripete che è suo. La classe conferma. Ma stranamente il suo astuccio era già sul suo banco. L’insegnante intuisce che possa essere della ragazza disabile, visto che, mesi prima, durante un’altra supplenza in quella classe, la sensazione percepita, seppure in assenza di parole o gesti espliciti, era quella di una strisciante ridicolizzazione ai danni della compagna che è più esposta a certi comportamenti in assenza della sua insegnante di sostegno e della sua educatrice.
Alla nuova insistente domanda posta dal docente ‘di chi sia quell’astuccio’, mentre l’autrice del gesto attribuisce la (falsa) appartenenza dell’oggetto a se stessa, soltanto una alunna fa un timido cenno negativo con il capo. La docente inizia a minacciare la nota e la ragazza, con fare arrogante e provocatorio, continua il teatrino.
Ad un certo punto, l’alunna disabile si avvicina, emotivamente turbata, all’insegnante, le prende la mano, e le chiede: “Ti prego, aiutami, mi ha rubato l’astuccio”. A questo punto il dovere di servizio chiama. L’insegnante comunica la nota sul registro elettronico alla ragazza che inizia ad urlare, a chiedere spiegazioni, a ripetere che lei non aveva preso l’astuccio della compagna, minimizzando l’accaduto: “Non capisco cosa ho fatto, perché faccio sempre così con gli altri insegnanti e nessuno mi ha mai messo note per questo”. Ed in effetti sarà l’unica cosa vera, come poi l’insegnante scoprirà, resa nota dalla bulla che, oltre ad aver preso di mira la persona più debole della classe, è riuscita a soggiogare i compagni, spaventati di mettersi contro di lei, come capita sempre nei meccanismi attivati dai bulli. Naturalmente minaccia di mandare i genitori a dare una lezione all’insegnante che ha osato mettere la nota.
Al peggio non c’è mai fine. Siamo solo all’inizio per l’insegnante che, in veste di pubblico ufficiale, ha semplicemente assolto al suo dovere, incluso quello di segnalare il fatto alla famiglia dell’alunna disabile comunicandolo nella sezione scuola/famiglia sul libretto personale.
La scuola, nell’arco di pochi minuti, è in subbuglio. Qualche collega chiede se era proprio necessaria quella nota. Il giorno seguente, l’insegnante viene fermata, fuori dall’Istituto, dalla madre della disabile. La madre la ringrazia anche per aver condiviso l’accaduto con la famiglia scrivendo nel libretto della figlia. “Ha fatto molto di più del suo dovere. Anche se il nome di chi si è comportato in quel modo con nostra figlia era stato cancellato…, abbiamo capito subito di chi si trattasse”. L’insegnante non capisce. Come cancellato? Da chi? Visto che il nome era stato scritto, sia per dovere di servizio (il superiore interesse della vittima viene prima di qualsiasi altra considerazione), sia per consentire alla famiglia della vittima di attivare tutte le tutele del caso. Insomma, il vicedirigente, senza informare l’insegnante, aveva sbianchettato il nome della bulla! La madre della vittima riferisce all’insegnante i motivi: “Privacy”. Come? Se i fatti sono avvenuti di fronte a tutta la classe… quale mai privacy si dovrebbe salvaguardare? In quell’occasione, sempre fuori dalla scuola, assieme alla madre della vittima c’è un’altra mamma con sua figlia, compagna di classe la quale conferma: quei comportamenti la bulla li tiene spesso, ma “gli altri insegnanti fanno finta di non vedere”. La madre della ragazza autistica esorta l’insegnante a non cancellare la nota sul registro, a non farsi convincere. Aveva sentito dell’intenzione di farla annullare sul registro elettronico.
La supplente si rivolge al sindacato per conoscere se effettivamente il vicedirigente avesse titolo per cancellare il nome della bulla. La risposta è chiara: “Quale privacy?”. Insomma, alla fine, quando l’insegnante fa presente la risposta del sindacato, il vicedirigente si dilunga in una romanzina bella e buona, confermando che rifarebbe comunque quello che ha fatto, perché si deve tutelare sempre e comunque la privacy. Come pure la nota sul registro elettronico deve essere visibile solo e soltanto alla famiglia dell’interessata, non a tutti gli altri. Alla fine, a sentirsi accusata è stata la supplente che ha osato scrivere e che non ha saputo tenere l’ordine in classe: “Come mai la ragazza è riuscita a prendere l’astuccio? Ne vogliamo parlare? Non doveva succedere”. Probabilmente alla fine è sempre colpa dell’insegnante. Persino per il fatto che la madre della vittima l’ha ringraziata. “Vogliamo parlare della non legittimità di parlare con la madre dell’alunna disabile?”. Ma stiamo scherzando? Se è stata la madre a fermare l’insegnante per ringraziarla… Eppure, appunto, meglio non vedere, vero?
E in ogni caso, l’accaduto viene semplicisticamente liquidato dal vicedirigente come un gesto non particolarmente grave. Insomma, c’è di peggio. “Certo – risponde l’insegnante – di fronte al peggio avrei chiamato direttamente le forze dell’ordine”
Irene Giurovich