Lo spaventapasseri di Paoluzzi è una festa di colori
La campagna friulana con il suo carico di sapori e di colori entra nelle sale triestine a un soffio di respiro dal mare. La porta Renato Paoluzzi con i suoi spauracchi che costituiscono da qualche anno il fondamento della sua ricerca, dopo l’analisi della natura e soprattutto di quel Natisone che è fiume dell’anima, dall’infanzia, all’adolescenza, alla gioventù alla maturità, dell’autore.
Gli spauracchi, gli spaventapasseri, sono una declinazione nel particolare di quella campagna che rappresenta l’universale mondo di Renato Paoluzzi.
I lavori sono su tela e su carta, sono oli e acquerelli, sono colpi di spatola e manualità pura.
Ma perche’ lo spaventapasseri è cosi fondante l’esperienza pittorica di questo maturo artista?
Innanzitutto perchè come dicevo esso rappresenta la vita contadina friulana, la dimensione della campagna antica e solitaria, in cui lo spauracchio pare parlare e dialogare con l’alba e il tramonto, con la calura e il freddo pungente.
Sul piano linguistico della pittura invece lo spauracchio racconta l’orizzontalità della campagna, rotta solamente da queste brevi verticalità che sorgono dalla terra e che sembrano dimensione della terra esse stesse.
Nell’ambito maggiormente letterario, lo spauracchio di Paoluzzi rappresenta la memoria che ci rimanda a Davide Maria Turoldo e a quel suo film, “Gli ultimi” descrittivo di una condizione ancestrale delle genti friulane, condannate ad un endemica miseria, dalla quale l’uscita è stata sospiro di sollievo, indubbiamente, ma anche smarrimento di identità.
Nel quadro di una lettura ottimistica di questa figura, di contro, lo spauracchio di Paoluzzi lascia intuire la sua allegra e colorata figura, il suo scanzonato abito , il suo ironico porsi figura simbolo di cio’ che dismesso puo’ essere ancora usato: un cappello, i calzoni.
Lo spauracchio di Paoluzzi è anche l’antidoto a paure antiche e sempre nuove, l’anticorpo davanti alla malattia esistenziale che attanaglia l’umanità, quel sottile male di vivere di cui parlano i poeti, quel dolore che bussa improvviso e ti richiama ai tuoi limiti di essere finito e non infinito, che bussa alla porta e che annota il tempo che passa e il trascorrere inesorabile della vita. Via dunque cappello e vestiti, per indossare la speranza.
Ma lo spaventapasseri di Paoluzzi è soprattutto festa di colori , caleidoscopio di luce, luminosa allegra composizione surreale di una, due, cento, mille figure, maschere, bambole di stracci. Guardiani di una tavolozza immensa e variegata che la nostra campagna ancora ci consegna, pur talvolta con qualche variabile consumistica che dissacra l’antico, ma che resiste al tempo che scorre, alla notte che rabbuia, alla pioggia che bagna, al sole che asciuga, pensieri, aspettative, tumulti interiori e tanto altro che ci avvolge e ci mozza il respiro. Ma la paura va esorcizzata. Renato Paoluzzi ce la farà. E noi con lui.