Se non mi paghi ti faccio causa: è estorsione?
La rubrica mensile del LABORATORIO DEL DIRITTO
Attualmente numerosi imprenditori si trovano nella difficoltà di recuperare i propri crediti. La problematicità di “farsi pagare” è un tema ricorrente negli ultimi anni; questo perché molti soggetti si trovano nell’impossibilità di adempiere le proprie obbligazioni per mancanza di liquidità o per incapacità di riscuotere essi stessi i propri crediti verso terzi. Per tale motivo, sempre più spesso si ricorre ai professionisti per cercare di recuperare crediti che, a volte, rischiano di compromettere addirittura le imprese stesse nel loro complesso.
La sentenza n. 48733/2012 della Corte di Cassazione è stata fondamentale per dare certezza sul come poter chiedere il pagamento dei propri crediti, senza incorrere nel reato di estorsione.
Innanzitutto, per poter analizzare questa questione giuridica, è utile partire dalla vicenda processuale che ha portato la Suprema Corte a pronunciarsi.
Tizio, titolare di un’impresa familiare, emetteva fatture false relative alla realizzazione di lavori di manutenzione e di pulizia parzialmente o per nulla eseguiti. Dopodiché, decideva di recarsi presso il proprio difensore di fiducia per cercare di ottenere il pagamento delle stesse. Il professionista, in virtù della richiesta del cliente, intimava agli apparenti debitori di pagare l’importo indicato in fattura, prospettando, in caso di mancato pagamento del debito, di agire in giudizio o di emettere un decreto ingiuntivo. Uno degli ignari debitori decideva di pagare, mentre altri decidevano di non corrispondere la somma di denaro e si rivolgevano alle Forze dell’Ordine. Il giudice per le indagini preliminari emetteva un’ordinanza di custodia cautelare (confermata dal Tribunale del Riesame) nei confronti dell’imprenditore “furbetto” per i reati di estorsione (art. 629 c.p.) e di tentata estorsione (artt. 56 – 629 c.p.). Avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame, l’imprenditore proponeva, a mezzo del proprio difensore, ricorso per Cassazione per erronea applicazione dell’art. 629 c.p. (“Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000”).
Nel caso di specie, è utile comprendere se la minaccia consapevole di prospettazione di azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate integri il delitto di estorsione.
La Corte di Cassazione ha dichiarato infondato il ricorso, enunciando il principio di diritto per cui “integra gli estremi del reato di estorsione la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l’agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto”.
Da questo principio di diritto è possibile trarre due conclusioni. Se la richiesta (o la minaccia) del soggetto agente, o di colui che lo rappresenta, è finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore e/o sproporzionato rispetto a quello eventualmente dovuto dal debitore si configura il delitto di estorsione. Per converso, se la richiesta (o la minaccia) del soggetto agente, o di colui che lo rappresenta, è diretta alla realizzazione di un diritto vantato dallo stesso, non sussistono i caratteri necessari per la configurabilità del delitto di estorsione.
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roberto.omenetto@laboratoriodeldiritto.it
da IL PAîS gente della nostra terra edizione cartacea febbraio 2020
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